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Il vino nell'antichità romana


    La coltivazione della vite sembra avere avuto origine dall'Asia minore ed in particolare dalle aree caucasiche e dagli antichi territori della Persia. Si estese poi in tutto il mondo allora conosciuto.
     In Italia la coltura della vite sarebbe arrivata attraverso la Sicilia con i colonizzatori Egeo-Miceni intorno al 2000 a.C., secondo altri la vite sarebbe stata introdotta dai Pelasgi (1600 a.C.) e dagli Etruschi (specialmente nella parte centrale), venuti dall'Asia minore; secondo altri ancora dai Fenici.
     Nei primi anni della fondazione di Roma  il consumo del vino era riservato alle classi più agiate; il suo uso era proibito alle donne data la scarsa quantità prodotta. Secondo Plinio terribili punizioni venivano inflitte alle donne che trasgredivano la legge: allo scopo di verificare se esse avessero bevuto era permesso baciarle in bocca.
     Lucio Columella nel suo manuale di agricoltura (65 a.C.), afferma che i romani trascuravano la potatura e producevano vini di scadente qualità a causa dei raccolti troppo abbondanti.
     Dominavano incontrastati, dunque, i vini "greci" prodotti nelle colonie della Magna Grecia ed in Grecia, forse perchè migliori. Il vino di Chio, secondo Varrone, era il migliore dei vini greci, il vino dei ricchi. Rinomati erano anche i vini di Lesbo.
      Con la conquista di nuovi territori i colonizzatori romani cercarono di espandere la coltivazione della vite per produrre vini da utilizzare per il loro fabbisogno, ma principalmente per scambi commerciali con i popoli assoggettati o con quelli oltre i confini, che erano avidi di vino.
      I prigionieri erano messi all'asta e venduti come schiavi. Il pagamento più ambito era il vino.
L'espansione della coltivazione della vite fu favorita anche dall'elevato numero di schiavi a disposizione. In considerazione di ciò la produzione di vino aumentò quantitativamente e migliorò qualitativamente, grazie alla introduzione delle tecniche impiegate nel vigneto e nella cantina dai greci. Aumentò anche il consumo , che fu finalmente esteso anche alle donne.
      Dalle zone centro-meridionali la viticoltura venne sempre più introdotta e diffusa nei territori della Valle Padana: nei colli vicino a Verona veniva prodotto il vino "Retico" ottenuto dall'uva "Rhaetica"; in Piemonte venne diffuso un vitigno a bacca nera adatto alle regioni fredde, la "Allobrogica", che sembra corrispondere all'attuale "Nebbiolo". Vitigno che venne poi introdotto anche in Borgogna e dalla cui evoluzione sembra si sia originato l'attuale Pinot. Nella zona di Bordeaux venne diffusa la varietà denominata "Butirica" che secondo Columella, produceva un vino conservabile per parecchi anni.
      I Romani furono eccellenti viticoltori ed erano a conoscenza di gran parte delle tecniche impiegate nella moderna enologia.
      Essi raccoglievano i grappoli d'uva ben maturi, con coltelli a forma di falce, e li portavano in cantina con ceste, scartando quelli immaturi ed alterati, che servivano per produrre il vino degli schiavi. Vino per gli schiavi che, secondo Catone (234 - 149 a.C.), veniva anche fatto aggiungendo acqua alle vinacce dopo pressate e facendo fermentare il tutto. Della "lora", ossia del "vinello" così ottenuto, agli schiavi spettava una razione di tre quarti di litro al giorno; in media era di 260 litri/anno. Oltre agli schiavi anche i contadini e gli operai in genere bevevano la "lora".
      La pigiatura, a quei tempi, era un rito bacchico, in cui uomini e donne, giocondamente, pigiavano con i piedi i grappoli contenuti in tinozze o in vasche in muratura o in pietra molto larghe (il "calcatorium"), poco profonde, in maniera che lo strato di uva fosse relativamente spesso, e sopraelevate rispetto al pavimento.
      La pressatura delle uve, dopo ottenuto il mosto fiore, veniva effettuata con torchi a leva. Il vino ottenuto sottoponendo le vinacce ad una seconda pressatura veniva chiamato "vinum circunsitum" o "mustum tortivum".
     Dopo una decantazione ed una filtrazione molto grossolana fatta attraverso adatti panieri di vimini, il mosto veniva messo a fermentare nei "dolia", recipienti panciuti di terracotta, della capacità di 600-1000 litri.
     I dogli venivano anche usati per invecchiare il vino e, con l'intensificarsi del commercio marittimo del vino, pure per il trasporto. Solo a partire dal 250 d.C. i recipienti di terracotta furono sostituiti con botti di legno.
     Il vino ottenuto, essendo torbido, veniva chiarificato utilizzando bianchi d'uovo montati a neve o latte fresco di capra, mentre i greci per rendere brillante il vino avevano fatto ricorso a pezzi di argilla o di marmo.
     Ai Cartaginesi, pare invece, si debba l'uso della calce, che veniva aggiunta nel mosto, per addolcire il prodotto. Il vino veniva quindi travasato in altri "dolia", dove rimaneva fino ad aprile. Il 23 aprile, dopo la festa di "Vinalia o Vinilia" si aprivano i "dolia" e si effettuava l'assaggio.
    Anche allora vi erano i degustatori patentati ("haustores") che classificavano i vini. Essi facevano parte della corporazione dei "Pregustatores", specializzati nell'arte di degustare per primi e dare giudizi su cibi e bevande destinati ai grandi banchetti o ai potenti dell'epoca, che temevano di essere avvelenati.
     I degustatori patentati si attenevano a poche ma inderogabili norme che regolavano la degustazione. Queste regole sono riportate da Burgundio nella sua "norma del perfetto degustatore":

  1. Non bere nè a digiuno, nè avendo mangiato troppo;
  2. Non bere dopo avere mangiato o bevuto qualcosa di acido o di salato;
  3. Non deglutire il vino che si sta degustando ma, dopo averlo tenuto un poco sulla lingua, sputarlo (pytassare si diceva allora);
  4. scegliere, quando si vuole"degustare", un giorno in cui tiri la tramontana, anzichè lo scirocco, in quanto lo scirocco intorbida il vino. 

     Per la degustazione generalmente si usava la "Pocula", classica coppa "ombelicata", simile per molti aspetti all'attuale taste-vin e così chiamata per il poco liquido che conteneva. In base ai risultati dell'assaggio si stabilivano gli eventuali tagli e i trattamenti di affinamento ed invecchiamento.
      Per ottenere vini alcolici e più dolci i romani  ricorrevano anche alla bollitura del mosto; in tal maniera si riduceva il volume e si concentrava il tenore zuccherino.
     Per appassimento delle uve su graticci per qualche settimana si otteneva il "Passum"; con aggiunta di miele (fino a 250 g/l) il "Mulsum"; con aggiunta di aromi i picata (con pece), i murrina(con mirra), gli absinthium (con assenzio).

I Romani producevano anche una specie di champagne, detto "Aigleucos", una specie di mosto che, per conservarlo dolce, veniva mantenuto ad una bassa temperatura immergendo le anfore nell'acqua fredda dei pozzi più profondi.
     All'epoca di Augusto (27 a.C. - 14 d.C) i vini preferiti erano quelli dolci e molto alcolici. Questi vini venivano invecchiati a contatto con dell'aria per farli ossidare. L'età del vino presso i romani, così come presso i greci, era considerata importante. Il vino invecchiato era indice di qualità. Con i procedimenti di vinificazione adottati all'epoca solo i buoni vini ed in particolare quelli di elevata gradazione alcolica riuscivano a conservarsi inalterati per 12mesi. Tutti i buoni cru venivano invecchiati da 5 a 25 anni.  Enorme (rapporto 1 a 80, anche 1 a 300) era allepoca la differenza di prezzo tra i vini comuni ed i grandi cru invecchiati.
     Fin verso il 100 a.C. il vino fu invecchiato con metodi naturali; indi si ricorse spesso all'invecchiamento artificiale, sistemando le anfore in camere che venivano riscaldate. Il calore, ossia la pastorizzazione, non solo accelerava le reazioni chimiche dellimvecchaimento, ma rendeva più stabile il vino, che non inacidiva più.
     Le anfore erano di varie forme e capacità; fittili a doppia ansa, di linea slanciata, dalla capacità di circa 26 litri e costituenti unità di misura. Nonchè l'urna (13,13 litri), il cadum (39,39 litri) e la legena ( di ridotta capacità, che serviva anche per la mescita nelle osterie. Tutti questi recipienti, che erano adoperati anche per il trasporto, riproducevano sempre la forma dell'anfora, in quanto la forma cilindrica ed affusolata permetteva facili movimenti di rotolamento, mentre il "fittone" consentiva di accatastarli in posizione verticale nel terreno dentro i magazzini o nello strato di sabbia nelle stive delle navi da carico. Per i trasporti terrestri si usavano otri fatti con pelli di suini, di capre o di altri animali. Il "cullei" era la pelle di bue intera, la cui capacità serviva come unità di misura del vino ossia 526 litri pari a venti anfore.
     Le anfore portavano al collo una specie di etichetta, il "pittacium", che riportava il luogo di provenienza del vino, il tipo di vino che contenevano, l'anno di produzione, il giorno del riempimento, il nome del produttore e quello del console in carica. Le anfore con il marchio "Effusum, Diffusum o Infusum" contenevano vini di qualità superiore, "Vina Amphorata", quelli destinati all'invecchiamento. Questi vini subivano la "diffusio", ossia il travaso, dai doli, in cui era avvenuta la fermentazione, in anfore più piccole. Le anfore normalmente rimanevano nel luogo di consumo del vino, in quanto erano "vuoto a perdere". A Roma venivano ridotte in frantumi e finivano in una discarica che col tempo diventò una collinetta il "Testaccio" o monte dei cocci.
     Il vino arrivava a Roma per via fluviale attraverso il Tevere dalll'Umbria e dalle colline sabine e per via marittima dai porti di Ostia, di Pompei e della costa della Campania.
     In occasione delle conviviali, gli schiavi sollevavano le pesanti anfore e versavano il vino nei "crateri" di forma e dimensioni diverse e dall'imboccatura grandissima. A quell'epoca era consuetudine a Roma mettere anche dell'acqua nei crateri per annacquare i vini; l'abitudine di mescolare il vino con l'acqua era anche la conseguenza della scarsa potabilità delle acque.
     In epoca romana c'era chi già beveva il "merum", cioè il vino puro, anche se costoro, tra cui c'era l'Imperatore Tiberio, venivano considerati autentici ubriaconi.
     La misura dell'annacquamento, che poteva anche essere di quattro parti d'acqua contro una di vino, era affidata ad un "Arbiter Bibendi", ad un "Magister Simposii"o agli "Haustores", così come in Grecia al "Simposiarca".
     Il vino in realtà all'epoca era più uno sciroppo alcolico che una bevanda simile a quella attuale e doveva essere tagliato per potere essere bevuto.
     Per prelevare il vino dai crateri e versarlo nei calici i "pocillatores" della antica Roma usavano principalmente:

  • il "simpulum", una sorta di ramaiolo a manico lungo adoperato nel caso di crateri molto profondi, che in Grecia era chiamato "kytos"
  • l'"olpe" che nelle sue varie forme ricorda la nostra caraffa d'acqua;
  • l'"oinochoe", che differisce dall'olpe per la caratteristica imboccatura a orlo trilobato.

     Il primo "bicchiere" utilizzato per bere vino sembra sia stato il corno di bue.
     L'uso di annacquare il vino prima di mescerlo comincia a scomparire nell'ultimo scorcio dell'epoca imperiale con il tramonto della cultura greco-romana, ma principalmente durante il Medioevo, anche perchè cambia la composizione ed il vino assume sempre più le caratteristiche di quello attuale.
     Nel frattempo ache l'anfora cominciava a perdere terreno nei confronti della botte. In tal senso influirono i contatti con i popoli celtici delle province romane, che erano maestri nell'arte di lavorare il legno.
    Rispetto alle attuali, le botti erano più lunghe e meno panciute e in epoca romana avevano i cerchi di legno. Queste radicali evoluzioni nella composizione dei vini, sempre meno alcolici e la introduzione della botte di legno, non permisero più a partire dal Medioevo i lunghi invecchiamenti tipici della tradizione e del gusto greco-romano. A differenza dell'anfora di terracotta, che poteva essere chiusa ermeticamente, la botte di legno, infatti, presentava una porosità che non permetteva di invecchiare a lungo il vino senza che si alterasse. Questo problema rimase irrisolto fino alla caduta dell'impero romano, fino a quando gli iglesi avendo abbandonato la coltivazione della vite, in considerazione delle poco favorevoli condizioni climatiche, e ponendosi il problema del rifornimento da centri di produzione generalmente lontani, non scoprirono la tecnica dell'alcolizzazione. L'aggiunta di alcol ai vini consentiva, infatti, non solo di renderli più dolci, ma anche più stabili, meno alterabili e quindi più facilmente trasportabili durante i lunghi viaggi in nave.
     Tale tecnica di alcolizzare il vino venne così introdotta verso il Seicento in Portogallo, esattamente ad Oporto, per la produzione del Porto, e successivamente a Jereza della Frontera per lo Sherry e in Sicilia, a Marsala, per la produzione dell'omonimo prodotto.